Il Museo Bourdelle di Parigi ospita dal 3 aprile al 18 agosto 2024 una mostra sulla memoria degli oggetti. La nostra specie favolosa vorrebbe dare un’anima a queste cose inanimate, anzi la forza di amare. Solo i poeti riescono a condurci oltre la realtà, sulle ali dei nostri desideri o delle nostre proiezioni. Gli oggetti rimangono inerti e privi di sensibilità.
Antoine Bourdelle, Minatori nella miniera, seconda versione, Monumento ai minatori di Montceau-les-Mines, progetto in gesso
Spirito, sei lì ?
La sottile mostra del museo Bourdelle fa vacillare le nostre menti cartesiane.
Un vento soffia sugli oggetti dello scultore montalbanese e ci svela la sua stessa intimità meglio dei discorsi di storia dell’arte e delle analisi erudite.
Gli oggetti diventano sospetti.
Li scrutiamo con stupore.
Come possono svelare a tal punto una parte spesso segreta dell’artista?
Hanno poteri magici?
E se il poeta avesse ragione?
I luoghi sono responsabili anche della presenza dei precedenti inquilini.
Questo non può essere spiegato.
Entra nel laboratorio di scultura di Bourdelle e lo vivrai.
Non c’è bisogno di resistere, ti penetra e per questo ne esci commosso.
La precauzione di preservare questo luogo “nello stato originario” non è stata vana.
Lo scultore è lì e accompagna il visitatore: un vero e proprio viaggio nel tempo.
Fotografia anonima, vista dell’ingresso del 16 impasse du Maine a Parigi, prima del 1933
Il vecchio edificio sull’ex Impasse du Maine, diventato un museo, non tace. Non ci resta che interrogare le tracce del passato per renderlo loquace, così come gli oggetti in esso contenuti, testimoni silenziosi della vita dell’artista. Non è un esercizio facile, ma le curatrici scientifiche della mostra, Valérie Montalbetti Kervala coadiuvata da Claire Boisserolles, ci sono riuscite con sagacia sotto l’egida di Ophélie Ferlier-Bouat e Florence Viguier-Dutheil, direttrici dei musei Bourdelle di Parigi Montauban.
Una sedia che chiacchiera
Questa sedia neogotica, chiamata “caquetoire” nella seconda metà del XVI secolo, doveva accogliere la seduta di divanetti nobili vestiti con ampie gonne, da cui il nome e la sua forma trapezoidale.
È stato il padre ebanista di Bourdelle a realizzare questo modello. Lo scultore lo conservò devotamente, perché lì seduto ritrovava l’odore della bottega Montalbanesa, dove imparò molto presto a scolpire il legno e a disegnare mobili e sculture. Poco dopo il suo arrivo a Parigi, i suoi genitori vennero a vivere con lui e il padre continuò la sua attività professionale fino alla morte. È quindi Impasse du Maine, nella piccola casa sulla strada mostrata nella fotografia, che è stato progettato questo mobile.
Se il suo autore ha scelto un caquetoire, non è per evocare le chiacchiere delle duchesse rinascimentali, ma la propria storia, la passione per il legno, per gli stili antichi, per la scultura, per il lavoro ben fatto: tale è l’eredità che ha trasmesso ai suoi figlio e che questa sedia racconta silenziosamente. Questi ricordi ebbero un profondo impatto su Bourdelle che, a più di sessant’anni, disegnò se stesso da bambino, nascosto nel banco da lavoro di suo padre, oggi esposto al museo, con il tampone di inchiostro e la squadra da ebanista.
Su questo mobile da lavoro che simboleggia una vita di passione i curatori hanno collocato con molto giudizio il busto del padre disegnato dal figlio. L’ultimo omaggio, visibile anche in mostra, è il pastello che lo scultore fece di suo padre sul letto di morte nel febbraio 1906. Abbandonò poi il suo nome di battesimo Émile per quello di Antoine, portato dai suoi antenati per diverse generazioni e la cui memoria egli così perpetua.
L’antichità sulle labbra
Un’altra mostra sullo stesso tema ha riportato oggetti familiari di Ingres e Delacroix nei loro omonimi musei di Montauban e Parigi.
Il violino di Ingres, al di là dell’espressione passata al linguaggio quotidiano, esplora un aspetto più sconosciuto di questo artista, anch’egli montalbano. L’oggetto ci fa sentire la musica che ama e la vicinanza tra il suo pennello e il suo arciere.
Anche i piatti di terracotta policroma che Delacroix portò dal Marocco furono fonte di ispirazione per questo pittore casalingo. La loro presenza nel suo atelier risveglia i suoi ricordi di viaggio e stimola la sua immaginazione: non smetterà mai di dipingere scene orientali, come se gli arabeschi dei suoi piatti riattivassero la sua memoria…
Anche Bourdelle ha un oggetto di ispirazione nel suo museo. Da bambino, a Montauban, abbandona la scuola ufficiale che poco gli piaceva in favore di quella delle capre. Accompagnando lo zio che pascolava le greggi al suono del flauto di Pan, si trasformò in capraio e questo strumento divenne quasi un suo attributo.
Flauto di Pan ad ancia, regalo di Antoine Bourdelle a sua figlia Rhodia
Non è quindi un caso che ne regalò una copia alla figlia Rodia, appena un anno, come lui stesso conservò quella del nonno, una reliquia la cui semplicità i visitatori possono ammirare senza necessariamente percepirne la forza suggestiva. Questo strumento condusse il giovane Bourdelle dai pascoli del suo nativo Quercy verso la mitologia insegnatagli dai suoi professori alla Scuola di Belle Arti di Tolosa. La religione dei Greci, all’origine della nostra civiltà, resta attiva per Bourdelle e la sua fede restituisce l’impatto che ebbe nell’Antichità, sul destino dei suoi seguaci. Portando il flauto alle labbra, resuscita gli amori del dio Pan, protettore dei pastori, la cui fisionomia, tra capra e uomo, ricorda quella dei satiri. Questa ibridità piace a Bourdelle perché rappresenta la battaglia dello spirito sulla materia, fonte di ispirazione per molte delle sue opere.
L’antico flauto si incarna così e Bourdelle ci ricorda la storia della ninfa Siringe che Pan perseguita con le sue assiduità in maniera opprimente, con un irrefrenabile istinto animalesco che caratterizza l’ostinazione dei suoi desideri. Per sfuggire alla sua influenza, Syrinx invoca gli dei greci e chiede di essere trasformata in canne. Questa metamorfosi della bella ninfa in steli cavi e rigidi mette Pan nella disperazione, e per conservare il ricordo della sua folle passione, taglia gli steli delle canne, li assembla con cera d’api e costruisce questo flauto che perpetua mai l’inconsolabile lamento di Syrinx. La mitologia ha questo lato implacabile, fatto di brutalità e dominio, che Bourdelle restituisce con il vigore del suo temperamento. Si rappresenta come un satiro in una serie di autoritratti che i curatori mettono in dialogo con il flauto e che testimoniano questa lotta tra desiderio e sublimazione che lo scultore non smette mai di mettere in discussione.
Non sorprende che le capre occupino un posto molto speciale nell’universo creativo di Bourdelle, e numerosi disegni e sculture lo testimoniano. Lui stesso si ricollegò alla vita pastorale della sua infanzia durante un viaggio a Villard-de-Lans durante l’estate del 1908, dove salvò un ariete dal mattatoio prendendolo a modello. Ma tornato a Parigi, dovrà dolorosamente decidere di abbandonare ai coltelli da macellaio l’animale di cui aveva guadagnato la fiducia. Questa storia crudele genera opere cariche, offerte per la gioia del pubblico.
La musica, onnipresente nell’opera di Bourdelle, proviene innanzitutto dalla sua regione, l’Occitania, dalle canzoni dei suoi amici felibri con le singolari intonazioni di questa lingua meridionale. Una parte della mostra rende omaggio agli scrittori di lingua occitana tanto venerati da Bourdelle. L’armonium portatile su cui lo scultore improvvisava con fervore viene qui presentato come il mezzo capace di restituire i suoni della sua terra natale che la lontananza rendeva ancora più essenziali.
L’oggetto mancante
L’oggetto non conservato è onnipresente nella sala espositiva dedicata al monumento ai caduti di Montceau-les-Mines. Questa città pagò un caro prezzo durante la Prima Guerra Mondiale. Dei quasi mille morti, più della metà lavorava in miniera. A Bourdelle fu chiesto, all’inizio del 1919, di erigere un monumento in onore della loro memoria. Ci va subito e vuole immergersi nella realtà quotidiana dei “volti neri”. Scende quindi nelle viscere della terra, alla luce di una lampada da minatore che non solo illumina ma protegge rilevando la presenza di gas. Bourdelle si ispira a questo accessorio essenziale per il suo monumento. Non avendo conservato la lampada iniziale che alimentava la sua fantasia, numerosi disegni dell’artista permettono di seguire le fasi del suo lavoro per trasformare un semplice oggetto in un’opera imponente alta undici metri e mezzo.
Antoine Bourdelle, Lampada da minatore, 1919 circa, inchiostro e acquerello su carta intessuta
Bourdelle adorna la sua lampada monumentale con bassorilievi che riproducono fedelmente i gesti degli operai e gli accessori (martello pneumatico, cappello, ceste) utilizzati anche dalle donne per smistare il carbone: un omaggio sia ai lavoratori di questo mondo sotterraneo che alla resistenza dei soldati-minatori.
Bourdelle “in carne e ossa”
Gli oggetti familiari dello scultore sono pieni di storie, ma per cogliere l’autore nella sua abbaglianza bisogna immaginare il suo gesto, interrogare il suo volto, le tracce fisiche della sua esistenza. Noi che non lo conoscevamo abbiamo ancora fotografie, ritratti dipinti, disegnati o scolpiti, persino autoritratti che ci raccontano la sua percezione di lui stesso.
Il 24 settembre 1929, mentre era in campagna, al Vésinet, dal suo fondatore Eugène Rudier, gli fu fusa la mano destra, che materializzò l’organo della sua creazione. Una settimana dopo, Bourdelle morì e la sua mano destra fu nuovamente fusa, così come il suo viso, come si faceva per le celebrità. Una vetrina della mostra presenta questi gessi. Paradossalmente quello del suo volto sembra preso dal vivo. È carico di energia concentrata, meditazione intensa, lontano dallo stigma del sonno eterno. Per quanto riguarda le sue due mani destre, è molto commovente vederle riunite, una piena di intenzioni e l’altra calma.
Calchi funebri naturali del volto e delle mani di Antoine Bourdelle, 24 settembre e 1 o 2 ottobre 1929 (calchi) gesso, Museo Bourdelle Inv. MBCO516
Quando il suo corpo imbalsamato fu trasportato a Parigi, la sua vedova, Cleopatra Sévastos, organizzò un servizio funebre nel suo laboratorio. La bara riposa ai piedi del Centauro morente che sembra chinare la sua testa addolorata verso quella del suo creatore. Sulla parte superiore della bara, un oblò (chiuso da una saracinesca) permette di vedere il suo volto. Se alcuni notano la bellezza del suo volto scultoreo, altri restano turbati poiché l’impassibile artista sembra assistere al proprio funerale. Maurice Denis e alcuni studenti hanno forse dipinto un ritratto finale del maestro sparito, ma sua presenza permea le pareti, le opere e gli oggetti. Ed è ancora questo lo scopo, quasi cento anni dopo, di questa mostra che riallaccia il legame tra gli oggetti, le opere e l’intimo dell’essere, facendoli rivivere.
I gruppi sono poco informati su questa bella presentazione che la gratuità contribuisce a rendere sospetta. Tuttavia, attraverso questi oggetti che potrebbero sembrare innocui, accediamo all’intimità dello scultore come nessun’altra presentazione è riuscita a fare. Il catalogo, ricco di documenti inediti, svela un lato più segreto di Bourdelle. Tuttavia, nulla sostituisce l’esperienza della visita poiché questa antologia di opere e oggetti particolarmente scelti restituisce un Bourdelle vicino e commovente.